Non opprimere
i figli con l’idea della scuola (di Natalia Ginzburg)
Al rendimento scolastico dei nostri
figli, siamo soliti dare un’importanza che è del tutto infondata. E anche
questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo. Dovrebbe
bastarci che non restassero troppo indietro agli altri, che non si facessero
bocciare agli esami; ma noi non ci accontentiamo di questo; vogliamo, da loro,
il successo, vogliamo che diano delle soddisfazioni al nostro orgoglio. Se
vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito
innalziamo fra loro e noi la bandiera del malcontento costante; prendiamo con
loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta un’offesa.
Allora i nostri figli, tediati, s’allontanano da noi. Oppure li assecondiamo
nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo,
insieme con loro, a vittime d’una ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i
compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con
loro le lezioni. In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un
ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal
principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove
noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e illusorio. E se
là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere
che non c’è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d’esser
continuamente incompresi e misconosciuti, e di essere vittime d’ingiustizia: e
la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi. I successi o
insuccessi dei nostri figli, noi li dividiamo con loro perché gli vogliamo
bene, ma allo stesso modo e in egual misura come essi dividono, a mano a mano
che diventano grandi, i nostri successi o insuccessi, le nostre contentezze o
preoccupazioni. È falso che essi abbiano il dovere, di fronte a noi, d’esser
bravi a scuola e di dare allo studio il meglio del loro ingegno. Il loro dovere
di fronte a noi è puramente quello, visto che li abbiamo avviati agli studi, di
andare avanti. Se il meglio del loro ingegno vogliono spenderlo non nella
scuola, ma in altra cosa che li appassioni, raccolta di coleotteri o studio
della lingua turca, sono fatti loro e non abbiamo nessun diritto di rimproverarli,
di mostrarci offesi nell’orgoglio, frustrati d’una soddisfazione. Se il meglio
del loro ingegno non hanno l’aria di volerlo spendere per ora in nulla, e
passano le giornate al tavolino masticando una penna, neppure in tal caso
abbiamo il diritto di sgridarli molto: chissà, forse quello che a noi sembra
ozio è in realtà fantasticheria e riflessione, che, domani, daranno frutti. Se
il meglio delle loro energie e del loro ingegno sembra che lo sprechino,
buttati in fondo a un divano a leggere romanzi stupidi, o scatenati in un prato
a giocare a football, ancora una volta non possiamo sapere se veramente si
tratti di spreco dell’energia e dell’impegno, o se anche questo, domani, in
qualche forma che ora ignoriamo, darà frutti. Perché infinite sono le possibilità
dello spirito. Ma non dobbiamo lasciarci prendere, noi, i genitori, dal panico
dell’insuccesso. I nostri rimproveri debbono essere come raffiche di vento o di
temporale: violenti, ma subito dimenticati; nulla che possa oscurare la natura
dei nostri rapporti coi nostri figli, intorbidarne la limpidità e la pace. I
nostri figli, noi siamo là per consolarli, se un insuccesso li ha addolorati;
siamo là per fargli coraggio, se un insuccesso li ha mortificati. Siamo anche
là per fargli abbassare la cresta, se un successo li ha insuperbiti. Siamo per
ridurre la scuola nei suoi umili ed angusti confini; nulla che possa ipotecare
il futuro; una semplice offerta di strumenti, fra i quali forse è possibile
sceglierne uno di cui giovarsi domani. Quello che deve starci a cuore,
nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore per la vita,
né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato d’attesa, intento
a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cos’è la vocazione di un
essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita?
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